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E se al COVID-19 “piacesse” l’inquinamento?

La Pianura Padana carica di smog o meglio haze (https://en.wikipedia.org/wiki/Haze ) oggi dalla ISS, foto Paolo Nespoli, Astronauta ESA

Tutti i giornali italiani riportano con grande rilievo gli esiti di uno studio preliminare sulla correlazione fra inquinamento atmosferico e diffusione del Coronavirus COVID-19. Lo studio, più esattamente un “position paper” cioè un’ipotesi ancora da dimostrare,  è stato realizzato da un gruppo di ricercatori della Società Italiana di Medicina Ambientale (Sima) e dalle Università di Bologna e di Bari.

Ipotesi a: polveri sottili come vettore del virus

 

In un ampio servizio trasmesso da Rai Tre lo ha illustrato il biochimico bolognese Leonardo Setti. E’ una vecchia conoscenza di Vaielettrico in quanto proprietario di ben quattro auto elettriche (Leggi) e promotore dell’iniziativa delle Comunità Solari. Ce ne aveva parlato quando l’incontrammo, qualche giorno fa, e lo studio era ancora in fase di elaborazione.

Leonardo Setti, a sinistra, con il direttore della rivista Sapere del CNR Nicola Armaroli

Qual è la tesi? L’analisi comparata dei dati sulla concentrazione di particolato atmosferico  (PM10 e PM2,5)  in Pianura Padana  e l’incidenza dei casi di infezione da coronavirus mostra una evidente correlazione. La stessa correlazione si è riscontrata in Cina, nell’area di Wuhan, dove si è inizialmente sviluppata la pandemia. In altre aree meno inquinate, per esempio la provincia di Roma, la diffusione del contagio sembra essere più lenta.

I ricercatori hanno esaminato i dati delle Arpa  regionali  relativi a tutte le centraline di rilevamento, registrando gli sforamenti. Parallelamente, sono stati analizzati i casi di contagio da COVID-19 riportati sul sito della Protezione Civile. Dall’analisi è emersa una relazione tra i superamenti dei limiti di legge delle concentrazioni di PM10 nel periodo tra il 10 e il 29 febbraio e il numero di casi infetti da COVID-19 aggiornati al 3 marzo (considerando un ritardo temporale intermedio di 14 giorni, pari al tempo di incubazione del virus).

Già dimostrato con aviaria, RSV e morbillo

Partendo da questi dati, lo studio cerca di spiegarne le ragioni scientifiche.  Ricerche autorevoli fatte sui precedenti contagi virali, come l’aviaria, il virus respiratorio sinciziale umano (RSV) e il morbillo sembrano confermarlo. Hanno evidenziato infatti che il particolato atmosferico (PM10, PM2.5) costituisce un efficace vettore per il trasporto, la diffusione e la  proliferazione delle infezioni virali.

In questi casi gli agenti patogeni sembrano aver utilizzato le particelle inquinanti dell’atmosfera come “carrier” o “mezzo di trasporto” per sopravvivere più a lungo e coprire distanze molto superiori al metro considerato la distanza di trasmissione per via aerea.

Tuttavia non esiste al momento alcuna evidenza scientifica sul fatto che anche il nuovo e sconosciuto COVID-19 abbia questa possibilità. Ricercatori del laboratorio di Virologia dell’Università di Whuan hanno analizzato la presenza del virus in sospensione in diversi ambienti. Il risultato è stato che  nei luoghi pubblici la concentrazione dei virus nell’aria non era rilevabile, se non in presenza di una forte aggregazione di persone. Ciò potrebbe significare che la correlazione statistica fra inquinamento ed epidemia non dipende da fenomeni di “trasporto” a lunga distanza, ma da tutt’altri fattori.

Quali? Le ipotesi alternative citate dagli osservatori  sono principalmente due. Una che implica ugualmente una relazione causa-effetto fra inquinamento e contagio, una seconda che l’ esclude.

Ipotesi b: polmoni più fragili per il particolato

La prima riguarda le conseguenze dell’inquinamento sul sistema respiratorio. Si è verificato, per esempio, che i fumatori sono più esposti al rischio di contagio al COVID-19. Come loro, potrebbero esserlo i residenti in aree a forte concentrazioni di particolato e gas nocivi nei periodi di sforamento dei limiti. Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità (OMS), del resto, l’esposizione all’inquinamento atmosferico genera già molte migliaia di decessi prematuri per patologie legate al sistema respiratorio. In Italia la stima è di 60 mila decessi all’anno. Sarebbe quindi logico che il COVID-19 esprimesse una maggior aggressività, e letalità, nei confronti di soggetti già in sofferenza. Anche questa spiegazione rafforzerebbe una conclusione di carattere generale: ridurre l’inquinamento sarebbe un valido scudo anche contro il diffondersi di epidemie globali.

Ipotesi c: è solo colpa del super affollamento

La seconda ribalta il ragionamento: l’inquinamento è tanto più alto quanto più è concentrata la presenza e l’attività dell’uomo. Gli stessi parametri favoriscono anche la diffusione delle epidemie. Il coincidere negli stessi giorni e nelle stesse aree, quelle più urbanizzate, di entrambe le circostanze darebbe solo l’illusione numerica di una correlazione, che però non esiste. Di conseguenza, anche in un mondo ideale ad inquinamento zero, per esempio con l’adozione di energie rinnovabili ed elettrificazione generalizzata del trasporto, dell’industria e della climatizzazione domestica, il rischio di pandemia da COVID-19 nelle aree più affollate del Globo non si ridurrebbe.

Ecco perché sembra del tutto prematuro trarre qualsiasi conclusione dal “position paper” appena diffuso.

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