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Quote personali di CO2, una nuova frontiera

zero carbon

Emissioni di gas serra

Se ne parlerà anche al prossimo Cop26 di Glasgow. E’ la proposta, innovativa e controversa, di istituire un mercato delle Quote personali di carbonio. Un’idea messa a punto da un gruppo di ricercatori internazionali, tra cui l’italiano Francesco Fuso Nerini, direttore del KTH Climate Action Centre di Stoccolma. Lo studio, teso a raggiungere l’obiettivo delle emissioni zero entro il 2050, prevede che a ogni adulto venga attribuita a inizio anno una quota di CO2 da “spendere”. In questa intervista il professor Fuso Nerini ci spiega come funziona.

Francesco Fuso Nerini

Il professor Francesco Fuso Nerini, assieme ad altri colleghi, ha recentemente rilanciato una proposta forte e radicale. L’idea è che occorra un approccio inedito se davvero si vorrà cercare, nei prossimi anni, di mantenere al di sotto dei 2 gradi centigradi il riscaldamento climatico. L’attuale politica climatica affronta il problema essenzialmente dal lato delle emissioni su grande scala, quali impianti industriali, centrali elettriche, trasporti, agricoltura. Secondo le tesi esposte da Fuso Nerini e dai colleghi dell’Università di Oxford, dell’Israel’s Interdisciplinary Center, di Herzliya, dell’University College di Londra attraverso un articolo comparso sulla prestigiosa rivista Nature Sustainability, occorre affiancare alle politiche su larga scala una diretta responsabilizzazione individuale. Collegare dunque l’azione personale agli obiettivi globali di riduzione delle emissioni di carbonio.

La sfida delle quote personali di CO2: ora si può

Si tratta di quelle che la lingua inglese definisce Personal carbon allowances (PCAs), ovvero quote personali di CO2: a ciascun adulto viene attribuita una indennità di carbonio uguale e negoziabile che si riduce nel tempo in linea con gli obiettivi nazionali. Stili di vita, consumi, uso dell’auto o voli in aereo vanno a erodere la quota di carbonio personale stabilita a inizio anno per ciascun individuo. Questa sfida, che solo alcuni anni fa fu giudicata troppo in anticipo sui tempi, secondo i ricercatori è oggi invece tornata d’attualità. Necessaria, anzi, se davvero si vorrà, come previsto dall’Onu attraverso l’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC), arrivare all’azzeramento delle emissioni globali nette entro il 2050.

A ciascuno le sua quota di emissioni in una App

E’ una vecchia idea che ritorna: perchè professore?

Soprattutto perchè la sua attuabilità ha oggi fatto notevoli passi in avanti. Gli effetti della pandemia sui comportamenti delle persone, oltre allo sviluppo della digitalizzazione e dell’intelligenza artificiale, hanno infatti creato le condizioni per rendere più facilmente praticabile l’introduzione delle quote personali di carbonio. Le attuali tecnologie, rispetto al 2008 quando uno studio britannico giudicò l’idea prematura, consentirebbero di sviluppare app o programmi per conteggiare queste quote. Sappiamo inoltre che l’ingresso del Covid nella vita quotidiana ha velocemente imposto e introdotto comportamenti che, appena un paio d’anni fa, nessuno avrebbe ritenuto immaginabili. Si tratta in definitiva di riflettere su come le abitudini umane possono modificarsi qualora ci si trovi di fronte a necessità gravi e impellenti. A differenza della crisi shock determinata dalla pandemia, rispetto al problema climatico ci sono ancora i margini per affrontare i necessari cambiamenti in maniera graduale e compatibile. Questa finestra, però, va e andrà stringendosi sempre più rapidamente: di qui la spinta a intervenire con scelte innovative.

Dunque, professore, il dibattito sulle quote personali di CO2 è aperto?

C’è l’intenzione di discuterne anche al prossimo Cop26 di Glasgow: ci è stato chiesto di preparare un policy brief sul tema. Sappiamo che l’argomento è fortemente polarizzante: ci sono state reazioni positive, come un recente articolo apparso su Bloomberg. Ma anche resistenze, come denota un intenso dibattito su Twitter dove sono emerse le posizioni di chi giudica un tale approccio inaccettabile. C’è chi manifesta il timore che possa portare a una eccessiva limitazione delle libertà individuali. Ma l’impressione è, sì, che il dibattito si sia riaperto. Lo abbiamo visto anche da recenti trasmissioni della Bbc o della tv svedese in cui è stata affrontata la questione.

“Mobilità elettrica indispensabile. Ma non solo quella”

Una proposta, la vostra, che andrebbe a  incidere in maniera determinante sugli stili di vita delle persone. Quale contributo potrebbe dare la mobilità elettrica nel quadro delle quote personali di carbonio?

Importante. A patto, però, che la diffusione della mobilità elettrica avvenga in un contesto in cui anche i sistemi per la produzione dell’energia siano a basso contenuto di CO2. Guardando agli scenari elaborati dall’Agenzia internazionale per l’energia, la strada della mobilità elettrica è comunque indispensabile. Se davvero vorremo raggiungere l’obiettivo di emissioni zero entro il 2050 non c’è più spazio per le auto termiche. Il sistema dei trasporti sarà determinante: solo veicoli elettrici o a idrogeno.

E la questione della produzione di energia elettrica?

In Svezia quasi tutta l’energia elettrica è prodotta da centrali idroelettriche o nucleari, la produzione di CO2 è praticamente assente. Di conseguenza, comprare oggi un’auto elettrica in Svezia contribuisce molto all’abbattimento del CO2. Non so se lo stesso discorso può valere per l’Italia. Per raggiungere gli obiettivi climatici è fondamentale avere un sistema di produzione dell’elettricità decarbonizzato.

Lo scambio delle quote premierà i più virtuosi

Il vostro studio introduce anche un aspetto ingeressante e controverso, quello del trading delle quote personali di carbonio. Può spiegarci come?

Sì, si tratta di un fattore necessario che potrebbe dare vita a nuove prospettive di business. Nuove aziende che creano i presupposti per un mercato delle quote personali di carbonio.

Il concetto di base sarebbe che, quando una persona ha esaurito le proprie quote personali di CO2, può andare a comprarne di nuove da chi, invece, grazie ai comportamenti, ne ha risparmiate e ha un surplus da poter vendere. E’ così?

E’ così. Il trading consentirebbe di imprimere una spinta importante verso l’economia green. Non solo. Sarebbe conveniente per le famiglie del ceto medio, che si troverebbero con più emissioni da spendere rispetto al bisogno. Al contrario, il sistema sarebbe più penalizzante per i redditi alti, generalmente più dediti a consumi elevati. Questi si troverebbero nella necessità di acquistare nuove quote, alimentando il mercato del ceto medio. Insomma, una politica di redistribuzione anche a favore dei meno abbienti.

Il primo passo? Monitorare le emissioni personali

Non le pare una strada lunga e impervia?

Può darsi. Resta il fatto che i singoli, gli individui, faticano a darsi delle priorità riguardo alla sfida climatica. Comprare un’auto elettrica? Andare in bici? Mangiare meno carne? Un primo passo in avanti potrebbe essere un sistema, una semplice app, che possa dare a tutti le informazioni necessarie sull’incidenza dei propri consumi e delle proprie abitudini.

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