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Quanto ci costerà salvare il Pianeta? I conti di Carlo Cottarelli

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Quanto ci costerà salvare il Pianeta dall’ecatombe climatica? E soprattutto: vale la pena di provarci? L’ economista Carlo Cottarelli pensa di sì. Lo scrive nel suo ultimo libro “Chimere” e lo conferma in questa videoentervista per il nostro canale youtube.

La crisi climatica e i costi della decarbonizzazione sono il focus dell’ultimo capitolo, il settimo, del libro “Chimere, sogni e fallimenti dell’economia” uscito lo scorso maggio (Fertrinelli, 17 euro). Capitolo che si apre con una riflessione sui limiti a una crescita economica senza fine. La sostenibilità ambientale è il principale.

Ma la transizione verso un’economia decarbonizzata per salvare il Pianeta è quindi una “Chimera”, un sogno già fallito?

«Non intendo dire questo _ risponde _. Ma la transizione ha dei costi difficili da quantificare e dei rischi per l’economia abbastanza grossi. Cosa si può fare per rendere compatibile la crescita con il rispetto dell’ambiente? Tecnicamente sappiamo come ridurre le emissioni di CO2 e azzerarle nel 2050; ma sono preoccupato perchè a livello globale si dicono tante parole, ma ci si muove nella direzione opposta: si continuano ad aprire i rubinetti anzichè cercare di chiuderli».

Perchè non riusciamo a fare quello che sappiamo di dover fare? 

«Il problema è che ci sono 210 Paesi nel mondo, e ognuno di questi ha interesse che l’aggiustamento lo facciano gli altri. In altre parole tutti hanno interesse a non far niente. Ci vuole un accordo internazionale, che peraltro già c’è, l’Accordo di Parigi, ma non viene rispettato. Il problema è che le posizioni di partenza sono molto diverse. I Paesi in via di sviluppo  hanno emissioni di CO2 in forte aumento, ma partono da livelli molto bassi e rivendicano il diritto ad accrescere il proprio benessere.

Salvare il pianeta: la temperatura media è salita di 1,1 gradi dall’inizio del ‘900, dopo più di 10 mila anni di stabilità. la responsabilità è dell’uomo che brucando idrocarburi ha emesso in atmosfera miliardi di tonnellate di CO2, il principale dei gas ad effetto serra.

Ricordano a quelli ricchi la responsabilità storica di aver emesso in duecento anni il 55% del totale dei gas serra, pur rappresentando solo il 13% della polazione mondiale. I Paesi industrializzati negli ultimi 20 anni hanno ridotto le emissioni pro capite e quelle assolute, e chiedono perciò che anche gli altri facciano la loro parte. Ma non dimentichiamo che un indiano emette 2 tonnellate di CO2 all’anno contro 15 tonnellate di un americano. Ecco, queste asimmetrie complicano molto il raggiungimento di un accordo».

Una seconda asimmetria riguarda il costo della decarbonizzazione, che deve affrontare la nostra generazione, mentre i benefici li godranno quelle future. Ma il fenomeno migratorio, per esempio, è uno dei costi del non fare, ed è già a nostro carico. Interrompendolo il beneficio l’avremmo, non crede?

«E’ difficile stabilire se le migrazioni siano già conseguenza dei cambiamenti climatici. Negli ultimi venticinque anni, per esempio, il reddito pro capite in Africa è cresciuto più velocemente che mai. Insomma, è difficile convincere gli scettici che stiamo già pagando un prezzo per la crisi climatica».

Ma dovendo stilare un bilancio costi-benefici, lei, da economista, da che parte sta?

«E’ molto difficile quantificare i costi e ancora di più i benefici futuri. Tutto dipende da quello che noi chiamiamo il tasso di sconto temporale. In questo caso, il valore che attribuiamo al benessere delle generazioni future. Tutti i modelli elaborati dagli economisti ci dicono che il bilancio costi-benefici diventa attivo se centriamo l’obiettivo di limitare l’aumento delle temperature attorno a 2,5 gradi, a fine secolo. Oggi siamo a +1,1-1,2.

Ma tendo a dire che sarebbe saggio largheggiare nello sforzo di mitigazione. L’incertezza è tanta e potrebbe sfuggirci di mano il controllo del fenomeno, innescando scenari catastrofici. Insomma non mettiamoci a giocare, non facciamo il casinò ambientale. E i costi del fare ci sono, ma si parla di qualche punto percentuale di Pil; quindi non ci costringono a cambiare in modo fondamentale il nostro tenore di vita».

Alcuni interventi di decarbonizzazione, molto drastici e perciò anche molto costosi e molto controversi, l’Europa li ha adottati o sta per adottarli. Penso alla carbon tax, al ban per le auto termiche dal 2035, alle direttive per l’efficientamento degli edifici. Li condivide, o pensa anche lei che possano compromettere la competitività dell’Europa?

«Sulla carbon tax sono certamente d’accordo. E’ una tassa sulle importazione da paesi che non rispettano gli impegni ambientali ed è giusto che ne paghino il prezzo.  L’obiezione che può essere fatta è un’altra. L’Europa contribuisce solo per l’8-9% alle emissioni globali: cosa ci indaffariamo a fare se gli altri non si muovono? Io rispondo così. Primo: da buoni cittadini di Paesi evoluti abbiamo una responsabilità in più, quella di dare il buon esempio. Secondo: se ci portiamo avanti sulle tecnologie per ridurre le emissioni prima o poi gli altri dovranno seguirci e questo ci darà un vantaggio competitivo.

La Pianura Padana ripresa dal satellite: ecco l’inquinamento dovuto alla combustione degli idrocarburi

Ma l’argomento definitivo è che la combustione degli idrocarburi, per riscaldare gli edifici o per alimentare i motori termici delle nostre auto, non emettono solo CO2, ma anche tante altre sostanze inquinanti. Le polveri sottili, per esempio, entrano nei nostri polmoni, non in quelli dei cinesi. Quindi, mentre per l’effetto serra potremmo pensare che facciamo qualcosa che va a beneficio anche di quelli che non fanno niente, per l’inquinamento tutti i benefici ce li godiamo noi.

Sappiamo che tra le 30 province più inquinate d’Europa, 15 stanno in Italia e di queste 14 nella Pianura padana. Questo è un problema di cui dovremmo essere consapevoli e dovremmo cercare di risolvere».

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