Ricariche fuori uso col freddo? Il caso dei Supercharger Tesla bloccati dal gelo di Chicago ha acceso il dibattito. Paolo Mariano ha sentito il CTO di Ionity: VIDEO.
Ricariche fuori uso col freddo? Ionity rassicura…
Paolo ha fatto un blitz al Centro di ricerca&sviluppo di Ionity a Monaco di Baviera, accompagnato da Jacob Kamhuber, Head of Charging Technology. In questo centro, vengono condotti tutti i test necessari per l’installazione e la gestione delle stazioni HPC del marchio creato dai principali brand automobilisti tedeschi.
Non poteva mancare una domanda sui black-out che le colonnine accuserebbero in caso di freddo intenso, dato che il caso di Chicago ha destato grande scalpore sui media. Jacob lo rassicura, spiegando che le stazioni Ionity sono progettate per funzionare in qualsiasi situazione climatica, da +50 °C fino a -30 °C. Sono situazioni estreme per l’Italia, anche in tempi di cambiamenti climatici. Del resto pochi giorni fa una lettrice, Monica, ha riferito di avere ricaricato senza problemi a -15 a Livigno, in Valtellina: operazione subito avviata e svolta alle solite potenze.
Come garantire potenze adeguate in ogni situazione? Il limite principale…
Un’altra domanda ha riguardato le modalità con cui viene garantita in qualsiasi momento la presenza di adeguata potenza in ogni stazione. Jacob risponde spiegando che la struttura delle ricariche HPC Ionity è divisa in due parti principali: il caricatore e il raddrizzatore. Quest’ultimo svolge la funzione di convertire l’energia da corrente alternata a corrente continua. Jacob sottolinea che ogni caricatore è dotato di elettronica di potenza per la trasformazione, permettendo una potenza massima fino a 350 kW.
Il principale fattore limitante, spiega Jacob, è la qualità dell’interconnessione del sito. Tuttavia, il tecnico di Ionity rassicura spiegando che di solito si dispone di forniture da 1,5 megawatt in su. In caso di limitazioni, viene implementato un sistema centralizzato di distribuzione per garantire un’efficace gestione della potenza.
Come funziona la comunicazione tra auto e charger
Paolo solleva la questione dell’inesperienza dei clienti con il processo di ricarica, soprattutto con le fast e super-fast. La scarsa familiarità con questo processo spesso si traduce in sorprese inaspettate quando si collega l’auto alla stazione di ricarica.
Jacob spiega che, dopo l’autenticazione sulla colonnina, la prima fase è il riconoscimento del cambiamento di stato, seguita dal collegamento fisico tra auto e caricatore. Successivamente, si giunge all’accordo sui parametri di ricarica attraverso una comunicazione in cui l’auto è il richiedente e il charger risponde alle richieste. Una volta definiti protocollo, modalità di comunicazione e opzioni di pagamento, si giunge a un accordo sulla potenza di ricarica.
Questo processo è costante per l’intera durata della sessione di ricarica, con la comunicazione che si interrompe solo quando viene rimosso il caricatore. In sintesi, l’auto invia la richiesta di potenza al charger, che risponde inviando il massimo valore.
Nuovi progetti in cantiere: ricarica robotizzata e strategie per evitare le code
Infine, Paolo interroga Jacob sulla presenza di nuove tecnologie in fase di sviluppo. Jacob rivela due progetti in corso. il primo riguarda i caricatori robotizzati, un innovativo sistema automatizzato per collegare il cavo al veicolo senza che il conducente debba fare alcunché, se non attivare la ricarica.
Il secondo progetto si concentra sulla gestione delle code nelle stazioni di ricarica durante i periodi di maggiore affluenza, garantendo un’esperienza più efficiente per gli utenti. Un rischio che in Italia, Paese con una bassa densità di auto elettriche, per ora non si corre, ma che è molto più presente nei Paesi del Nord Europa, come Germania e Francia.
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Ma allora il problema negli USA da cosa è dipeso? Dalla rete elettrica?
Da una serie di concause e dal fatto che in realtà il “problema “è stato estremamente circoscritto (quindi era un “problema” limitato a pochi automobilisti).
Spiegato con parole semplici: automobilisti provenienti da un aeroporto dove avevano lasciato la macchina magari una settimana prima, con la modalità sentinella attiva, che si disattiva solo quando la macchina arriva al 20% di batteria. Nel frattempo la temperatura è crollata, la temperatura percepita, dovuta al vento, era intorno ai -30°. Nei parcheggi degli aeroporti centinaia e centinaia di macchine a benzina non si sono avviate perchè la batteria ha ceduto alle richieste del motorino di avviamento che doveva combattere l’olio densissimo (ma di questo se ne è parlato pochissimo, nessuno si fa caso se a -30° la batteria di servizio di una macchina a benzina ti tradisce); tutte le Tesla si sono avviate e si sono dirette verso il più vicino Supercharger, dove alcuni sono arrivati con la batteria al limite, pochi punti percentuali di batteria residua. Sotto al 10% il preriscaldamento della batteria NON si attiva (se parte prima e la macchina calcola che riesce ad arrivare al Supercharger, lo mantiene attivo, diversamente lo disattiva). Con la batteria a -30° la potenza accettabile dalla batteria è sostanzialmente di pochi kW, come se caricassi da wallbox casalinga, questo ha comportato un allungamento a dismisura (caricare a 5kW contro i 100kW medi attesi…) con intasamento, inoltre UN Supercharger aveva degli stalli non funzionanti (dovuti a un guasto, succede). Altro dettaglio: negli USA le BEV circolanti sono al 65% Tesla e usano sostanzialmente soltanto i Supercharger, gli altri operatori sono marginali (non è come in Europa dove ci sono alternative soprattutto a medio e bassa potenza; la più estesa rete di ricarica USA ha la metà della capacità di Tesla), quindi gli utenti Tesla (che sono i 2/3 di tutte le elettriche circolanti in USA) vanno ai Supercharger e se arrivi lì con pochissima batteria, tieni acceso il riscaldamento perchè diversamente congeli, alcuni stalli non funzionano, quei pochi funzionanti non si liberano perchè la ricarica è lentissima… insomma: la tempesta perfetta.
In realtà il problema ha riguardato qualche decina di automobilisti e nessuno ha parlato delle migliaia e migliaia di auto tradizionali che nemmeno si sono avviate, perchè fa sempre gola un titolo in cui puoi infilare la parola Tesla.
Nei paesi Scandinavi nei parcheggi Ikea ci sono centinaia e centinaia di colonnine, una per parcheggio: erogano 12V… servono alle auto termiche…. Arrivi, apri il cofano e colleghi i cavi… servono per non trovarsi con la batteria morta quando esci e ci sono -30°. Ma questo noncelodikono.
Quando la temperatura è particolarmente fredda (sottozero) e la macchina è particolarmente scarica (indicativamente al 20% ma può anche essere molto di più se la temperatura è decine di gradi sottozero) la macchina avvisa chiaramente con una scritta di accertarsi di poterla ricaricare quando la si accenderà perchè il freddo può diminuire fortemente l’autonomia e anche la capacità apparente (*) della batteria, ma se l’automobilista ignora il messaggio (perchè sta per prendere un aereo o perchè non sa che di lì a pochi giorni arriverà il vento polare o perchè semplicemente se ne frega), può succedere quello che è successo.
(*) l’energia a -40° non sparisce: diventa solo indisponibile. Se la lascio in aeroporto all’80% e poi la temperatura crolla, ci sono ancora, anche se magari la macchina mi dice che sono al 30% di utilizzabile (graficamente indica in BLU la percentuale di batteria inutilizzabile). Se la batteria viene riscaldata, usando ovviamente energia, poi tornano disponibili. Ma se partivo dal 10% o anche dal 20%, a -30° l’efficienza di una pompa di calore è piuttosto scarsina… e le prime Tesla nemmeno l’avevano (modelli del 2018 o le prime Model S), la batteria era riscaldabile unicamente usando il motore, a macchina ferma (alimentando solo lo statore e non il rotore).
Il problema non sono le colonnine, bensì i tempi di ricarica della batteria la cu chimica, se non condizionata, risente enormemente delle basse temperature.