Home Academy Rete elettrica, ecco perchè ha bisogno delle “batterie con le ruote”

Rete elettrica, ecco perchè ha bisogno delle “batterie con le ruote”

2
L'impianto sperimentale V2G di RSE, Nissan ed Enel X presso il quartier generale del CESI a Milano

Vuoi leggere questo articolo senza pubblicità? Entra qui e abbonati a Vaielettrico Premium
Webinar

Le auto elettriche, si usa dire, sono “batterie con le ruote”. E di batterie con le ruote ne serviranno tante, milioni, per mettere in sicurezza un sistema elettrico che nel 2050 dovrà essere interamente decarbonizzato, cioè alimentato solo da fonti rinnovabili. Secondo il Piano nazionale integrato energia e clima (PNIEC), già nel 2030 le emissioni di gas serra dovranno diminuire del 37%. Anche razionalizzando i consumi. Fotovoltaico, eolico e idroelettrico dovranno fornire  il 30% dell’energia primaria totale consumata in Italia e il 55,4% di quella elettrica (oggi siamo al 34,4%). Installare una capacità del genere non è impresa impossibile (serviranno circa 30 mila ettari di pannelli aggiuntivi e 10 mila nuove pale eoliche). Ma ottenerne ciò che serve, quando serve, dove serve, senza sprechi e con un investimento ragionevole lo è eccome.

Il difficile equilibrio della rete green

Si tratta infatti di risolvere il problema dei problemi: la loro “imprevedibilità” e “non programmabilità”. In altre parole, stoccarla quando se ne produce in eccesso, come sta succedendo da qualche anno in agosto e in molte altre giornate festive d’estate, e rilasciarla con la massima efficienza e parsimonia quando sole e vento non coprono il fabbisogno (molto spesso in inverno e quasi sempre nelle ore notturne). Oppure quando la richiesta aumenta repentinamente con una rampa oraria che può raggiungere i 10.000 MW/h.

Sei milioni di batterie con le ruote nel 2030

Nel 2030 le auto elettriche in circolazione in Italia saranno 6 milioni.  Alimentare tante batterie con le ruote richiederà un surplus di produzione elettrica trascurabile: se anche tutto il parco auto italiano di 38 milioni fosse elettrico, la domanda annua di elettricità aumenterebbe solo del 15%. Ma se tutte fossero in carica contemporaneamente, per esempio alle 8 di sera, la richiesta di picco salirebbe già nel 2030 di circa 4 GW. Soddisfarla diventerebbe un problema avendo oggi una disponibilità   “programmabile” (centrali termoelettriche) di appena 7 GW contro i 25 GW del 2013. Una delle soluzioni, come abbiamo visto, sarà giocoforza la collaborazione fra EV e rete elettrica. Per modulare, e a tratti  interrompere la ricarica, o addirittura per prelevarla dalle batterie a quattro ruote nei momenti di massima richiesta del sistema.

V1G, la ricarica col bilancino

Nel primo caso si parla di V1G: il rapporto veicolo-rete è unidirezionale, ma una gestione intelligente e programmata consente assorbimenti modulati o interrompibili, compatibili con la stabilità complessiva della rete. Non si ha capacità di stoccaggio aggiuntiva, ma si possono ottimizzare i prelievi “limando” i picchi di domanda. Tutti i veicoli sono abilitati a ricaricare in questa modalità, a condizione di adottare caricatori capaci di dialogare con la rete e avendo preventivamente contrattualizzato tempi e modi per l’ interruzione della ricarica.  In altre parole l’automobilista concede alla rete la possibilità di “centellinare” la fornitura di energia per la ricarica, entro un arco temporale predefinito e salvaguardando un minimo garantito.  In cambio avrà dalla rete elettrica tariffe particolarmente vantaggiose e, in certe fasce orarie, perfino la fornitura gratuita. Il vantaggio in bolletta potrebbe arrivare fino a 330 euro annui a veicolo. 

Il responsabile e-mobility di Enel X Alberto Piglia all’inaugurazione dell’impianto sperimentale V2G

V2G, dall’auto alla rete con due incognite

Nel secondo caso, quello del V2G, la connessione fra veicolo e rete è bidirezionale. In caso di necessità, quindi, la batteria  on le ruote può anche cedere energia alla rete, fungendo da accumulo supplementare diffuso. I prelievi vengono concordati, nelle quantità, nella frequenza massima, nelle fasce orarie. E ovviamente retribuiti secondo un tariffario. Ad oggi, però, solo un modello di auto, la Nissan Leaf, è abilitata alla bidirezionalità. Questo grazie al sistema di ricarica CHAdeMO, lo standard  adottato in Asia. L’altro standard europeo, CCS Combo, invece, non lo consente. Stimare i possibili vantaggi per il possessore di un’auto elettrica collegata in modalità V2G è molto complesso, praticamente impossibile senza conoscere tutte le variabili in campo.  

Il quadro di controllo dell’impianto sperimentale V2G di Milano

Tra queste c’è sicuramente il costo delle infrastrutture di ricarica e l’abilitazione al V2G delle auto che adottano il sistema di ricarica CCS Combo. Ma la principale riguarda la vita delle batterie, che potrebbero degradarsi più rapidamente dovendo aggiungere ai cicli di ricarica-scarica per la trazione anche quelli richiesti dalle forniture alla rete. Indicazioni più precise verranno dai test in corso presso gli impianti del CESI con il progetto di RSE (Ricerca Sistema Elettrico), Nissan che ha fornito due Leaf, Enel X che ha installato due impianti di ricarica bidirezionali  in DC da 15 kW. I test sono iniziati da qualche mese: uno dei due veicoli simula un uso privato, l’altro quello di un’auto aziendale. L’obiettivo è raccogliere i dati che serviranno ad elaborare gli algoritmi di gestione del dialogo fra auto e rete elettrica.

V2H, l’ecosistema domestico aperto al mercato

Un ulteriore passo avanti sarà l’adozione della modalità V2H, che prevede l’integrazione del veicolo con l’ecosistema domestico, compresa l’autoproduzione di energia da fotovoltaico, e con la rete elettrica. Nel concreto la batteria dell’auto funge nel contempo da accumulo dell’energia autoprodotta per massimizzare l’autoconsumo, e da accumulo al servizio della rete. In questo caso ai problemi tecnici si aggiungono problemi regolamentari. Entro fine anno dovrebbe essere approvato un disegno di legge che autorizza il V2H e lo regolamenta.

Ma anche l’avvio di V1G e il V2G richiede l’adozione di specifiche  normative.  Il complesso sistema elettrico italiano, infatti, è stato costruito su uno schema che vedeva pochi grandi produttori di energia con capacità minima installata di 10 MW, rapportarsi con gli organismi di regolazione e con gli operatori pubblici e privati del dispacciamento e della distribuzione.  In una nuova realtà fatta di produzione distribuita,  dove  i nuovi protagonisti diventano i milioni di prosumer (produttori-consumatori, ciascuno con capacità inferiori ai 100 kW) lo schema deve cambiare. Serviranno soggetti terzi che, aggregando i prosumer, si presentino sul mercato con una massa critica sufficiente a garantire flessibilità e prontezza nella risposta.

UVAM, i prosumer si aggregheranno

La sperimentazione avviata da qualche mese ha già portato alla nascita dei primi aggregatori, definiti UVAM (Unità Virtuali Abilitate Miste), ciascuno con una potenza minima da offrire al mercato (tecnicamente “limite inferiore di potenza di controllo”) di 1 MW.  In termini di “batterie con le ruote”, stima il CESI, si tratterebbe di aggregare almeno 150 punti di ricarica.  Troppi per ipotizzare UVAM di condominio o di vicinato, ma non per immaginare che  le grandi flotte aziendali si costituiscano autonomamente in UVAM. Una più dettagliata simulazione dello stesso CESI ha preso in considerazione  una mini aggregazione da 0,2 MW, con circa 30 veicoli collegati ad altrettanti punti di ricarica AC da 7 kW dalle 20 alle 8, e una percorrenza media di 20.000 km annui. 

Flotte aziendali in avanscoperta

Operando in modalità V1G, cioè garantendo alla rete solo la possibilità di modulare i prelievi, un’aggregazione del genere arriverebbe a ridurre i costi di ricarica del 40% circa. Il prossimo passo, dunque, potrebbe essere la diffusione della Vehicle-grid integration nelle nuove flotte aziendali elettriche. RSE, dando il buon esempio, si è già impegnato a convertire in elettrico e in ibrido “plug in” la totalità della sua flotta aziendale entro il prossimo anno. 

Apri commenti

2 COMMENTI

  1. “circa 30mila ettari di pannelli aggiuntivi”, se non erro, sono circa 300 km quadrati, cioè un quadrato di circa 17 km e 321 metri di lato.

    Anche dividendo necessariamente l’area in centinaia di impianti, con tutte le concessioni necessarie, forse facciamo prima ad affittare un pezzo di Sahara di quella dimensione e a stendere un cavo ad alta tensione.

    Tra l’altro, l’idea non sarebbe originale: era già stato il fisico Carlo Rubbia a stimare che un’area, grande come il Belgio, del Sahara sarebbe stata in grado di fornire energia sufficiente all’intera Europa.

    • Nessuno pensa a centinaia di impianti, bensì a centinaia di migliaia _ forse qualche milione _ di piccoli impianti su tetto (oggi sono già 800 mila). Il problema è aggregarli per consentirne l’integrazione con la rete. Stesso discorso vale per le batterie auto. Avremmo così produzione e stoccaggio distribuiti. L’idea di Carlo Rubbia fu alla base di un progetto internazionale denominato Desertec. Ipotizzava di realizzare grandi impianti solari termici fra Marocco e Algeria. Non con pannelli fotovoltaici, ma con sistemi di concentrazione dei raggi solari per produrre il vapore necessario a muovere le turbine dei generatori. Lanciato nel 2010, il progetto si è arenato per problemi tecnici, economici e politici. Un impianto pilota da 5 MW fu realizzato a Priolo (Siracusa) sotto la guida dello stesso Rubbia. Fu battezzato Archimede dal nome dello scienziato della Magna Grecia che utilizzò il principio degli specchi ustori per difendere Siracusa dall’assalto della flotta nemica. E’ stato in funzione fino al 2015, poi se ne sono perse le tracce.

Rispondi