Dal 2028 le navi che non virano verso i combustibili green saranno tassate. Bene? No. La misura, secondo gli analisti, non permetterà di cogliere gli obiettivi di riduzione delle emissioni dei trasporti marittimi al 2030: solo l’8% contro il 20 stimato.
Eppure gli stati petroliferi, in totale 16 e vedono insieme Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Oman, Russia…, hanno votato contro. In 63 si sono invece espressi a favore dell’accordo promosso dell’Organizzazione marittima internazionale (IMO) delle Nazioni Unite. T&E fa emergere il paradosso: l’uso dei biocarburanti farà crescere e non diminuire le emissioni.

Dal 2028 le navi più inquinanti pagheranno le tasse sulle emissioni
Come a terra anche in mare chi diffonde emissioni paga. Bene il principio ma bisogna vedere gli effetti pratici della determinazione del prezzo delle emissioni. Una monetizzazione per gli obiettivi di decarbonizzazione: riduzione delle emissioni di almeno il 20%, con l’obiettivo di raggiungere il 30% entro il 2030 e una transizione verso lo zero entro/intorno al 2050.

A partire dal 2028, tutte le navi del mondo dovranno iniziare a utilizzare un mix di combustibili a minore intensità di carbonio, oppure pagare. Chi continua a utilizzare combustibili fossili dovrà pagare una tassa di 380 dollari per tonnellata sulle emissioni più intense e 100 dollari per tonnellata sulle emissioni rimanenti al di sopra di una soglia inferiore.

Il risultato? Inferiore alle attese. Secondo l’UMAS (Commercial consultants for a carbon constrained future) l’accordo raggiungerà solo l’8% di riduzione assoluta delle emissioni entro il 2030, non raggiungendo gli obiettivi fissati dall’IMO nella Strategia riveduta: 20% di riduzione delle emissioni entro il 2030, con l’obiettivo del 30%.
Il GNL fossile per la transizione, poi sarà penalizzato
Il GNL fossile sarà il combustibile della transizione poi sarà penalizzato negli anni 30. Oggi continuano gli investimenti in questa direzione, ma con l’applicazione dell’imposizione fiscale le navi a GNL diventeranno meno competitive.
La tassazione approvata dovrebbe permette di raccogliere 30-40 miliardi di dollari entro il 2030 (10 miliardi l’anno), in teoria da investire sulla decarbonizzazione del trasporto marittimo. Contrari 16 Paesi petroliferi: Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Oman, Venezuela, Russia e altri.
Si sono astenuti: 25 Paesi tra cui Stati insulari del Pacifico (Kiribati, Figi, Repubblica delle Isole Marshall, Isole Salomone, Tonga, Tuvalu, Nauru, Palau e Vanuatu), Seychelles, Argentina e altri.
Non è un voto indifferente per alcuni di questi Paesi. Tuvalu, per esempio, ha espresso in plenaria, a nome delle isole del Pacifico, le proprie preoccupazioni in merito ai risultati: la necessità di incentivi energetici più forti; la promozione di una transizione giusta ed equa.

La denuncia e la critica agli Usa e ai Petrol State parte dalla piccola Vanuatu
Ralph Regenvanu, ministro dell’adattamento al cambiamento climatico di Vanuatu, non ha usato mezzi termini. «Facciamo chiarezza su chi ha abbandonato l’obiettivo 1,5°C. L’ Arabia Saudita, gli Stati Uniti e gli alleati dei combustibili fossili hanno spinto in basso i numeri a un livello insostenibile e hanno bloccato i progressi a ogni passo».
Dalla padella alla brace. T&E sottolinea gli effetti perversi: dal fossile ai biocarburanti causa della deforestazione
Oltre gli obiettivi mancati sulla percentuale di emissioni da ridurre decisori riuniti a Londra hanno concordato per la prima volta un quadro normativo che spingerà le navi ad abbandonare i combustibili fossili. Transport & Environment ha individuato le conseguenze perverse di queste regole: «Un massiccio aumento nell’uso di biocarburanti di prima generazione, che causano deforestazione e un aumento delle emissioni».

I biocarburanti sono pericolosi, infatti per la mobilità terreste non sono considerati un’alternativa, e secondo T&E si «rischia di provocare la distruzione delle foreste pluviali incentivando l’uso di biocarburanti di prima generazione come l’olio di palma o di soia».
I numeri di T&E non sono tanto diversi da quelli di UMAS. «Le misure appena approvate permetteranno, nel migliore dei casi, di conseguire riduzioni delle emissioni ben inferiori: appena il 10% al 2030, il 60% al 2040, fallendo raggiungere l’obiettivo di zero emissioni nette al 2050».
I fondi generati dalle tasse, sempre secondo l’associazione, saranno insufficienti ad incentivare i carburanti puliti come gli efuels. Il problema è la possibilità di acquistare dei crediti, le RUs, che permetteranno la navigazione di tante navi molto inquinanti. L’utilizzo dei biocarburanti e quindi l’accordo IMO potrebbe causare «un aumento delle emissioni di 270 Mt CO₂e nel 2030, rischiando di compromettere l’intero sforzo di decarbonizzazione».
Sul tema la posizione di Carlo Tritto, Sustainable Fuels Manager di T&E Italia, ha dichiarato: «Purtroppo saranno i biocarburanti di prima generazione, che causano la deforestazione delle foreste, a ricevere il maggiore impulso per il prossimo decennio. In assenza di migliori incentivi ai carburanti sintetici derivati da idrogeno verde, sarà impossibile decarbonizzare questo settore altamente inquinante. Ora la palla passa ai singoli Paesi che dovranno adottare politiche nazionali per offrire una possibilità concreta ai carburanti verdi».

La dinamica delle restrizioni fanno aumentare l’uso dei biocarburanti che poi generano più emissioni
In una nota molto semplice si fanno emergere le conseguenze paradossali di questo accordo. «Quando i biocarburanti vengono prodotti su terreni agricoli esistenti, la domanda di colture alimentari e mangimi resta invariata, inducendo queste produzioni a spostarsi altrove, spesso deforestando zone ad alto assorbimento di CO2 come foreste pluviali o torbiere».
SI ottiene un cambio di uso del suolo (ad esempio la conversione di foreste in terreni agricoli), con un conseguente rilascio sostanziale di CO₂ nell’atmosfera. Tenendo conto di queste emissioni indirette, i biocarburanti coltivati presentano delle emissioni ben superiori a quelle dei carburanti fossili che teoricamente dovrebbero sostituire.
La posizione di Assarmatori: neutralità tecnologica per le navi
L’importanza del tema ha spinto gli armatori italiani a presenziare in Gran Bretagna. Come sottolinea il presidente di Assarmatori Stefano Messina (qui una nostra intervista): «Siamo convinti che sia di fondamentale importanza, per l’industria marittima italiana, essere presenti nei luoghi dove si decidono le politiche ambientali. Oggi dirimenti per il settore e non possono essere affrontate e analizzate solo a valle, nel momento in cui vengono recepite nei singoli Paesi».

Il tecnico dell’associazione Simone Parizzi oltre a sottolineare la scelta di neutralità tecnologica ha reso evidente su quali combustili puntare. «Nessun dubbio che per l’Italia i fuel per una vera transizione siano il gas naturale liquefatto, nell’ottica di una futura matrice bio, il metanolo e i biocarburanti, come sosteniamo da tempo e come certificano autorevoli studi».
possibili soluzioni:
fine della globalizzazione = stop consumismo sfrenato di prodotti da millemila km.
navi container a vela. 🤣
propulsione nucleare = forse l’unica vera soluzione per mantenere il traffico odierno.
forse è giunto il momento di smettere di “voler la botte piena e la moglie ubriaca”..
L’elettrificazione delle banchine di ormeggio potrebbe aiutare, con obbligo di allaccio a nave attraccata.
Motori ibridi per le manovre in porto in elettrico.
Obbligare ad adottare questi sistemi, con scadenze certe e sensate, anche per le navi.
Retrofit elettrico per natanti in acque chiuse, traghetti compresi.
Credo che queste tecnologie siano già applicabili oggi.
Zero emissioni in porto è già deciso: entro 2030. Sono in movimento 700 milioni del Pnrr, in alcuni porti i lavori sono iniziati, per elettrificare 40 porti italiani
Si vero, lo so. In Italia qualcosa si sta facendo.
Il resto del mondo, come vedi, rema contro, per restare in tema navi.
Siamo passati da “metti una tigre 🐯 nel motore” a “metti cibo & aria nel motore “… sempre ai danni di tutti gli esseri viventi del pianeta.
La proposta storica dei paesi emergenti (Brasile in testa) era quella secondo me più efficace; pagare le nazioni (generalmente tra le più povere) per Mantenere le risorse forestali, la biodiversità e l’ acqua.
Se fosse stata accolta probabilmente avremmo avuto meno deforestazione e più acqua potabile disponibile (noi occidentali ancora non c’è ne accorgiamo ma in molti stati la crescente carenza di acqua non inquinata o salata è drammatica).
Adesso spingiamo paesi poveri a distruggere queste fondamentali risorse per alimentare navi e aerei (l’ Italia vuole pure le automobili!) creando una situazione da “non ritorno” in tempi sempre più brevi: superata la soglia non si invertirà mai più una situazione errata.
A dicembre 2025 entrerà in vigore la legge sulla deforestazione ovvero cinque prodotti/filiere – dalla carne dei bovini al legno ma anche la soia – che attraverso relativa documentazione si deve dimostrare il frutto di un disboscamento
Poca roba rispetto a quanto stanno distruggendo tra mono-coltute (es. Soia), biocarburanti, legnami export etc.
E poi.. purtroppo…le eventuali sanzioni non pareggiano mai i danni fatti..occorrerebbe togliere licenza d’impresa a chi contravviene..
Mica poco per commercializzare questi prodotti devi provare che non sono frutto di deforestazione. E’ la peggiore sanzione: non puoi vendere.
qualcuno andrà a guardare queste cose se va a comperare del black angus o dei mobili in teak ? Io sinceramente al ristorante no manco sui mobili di casa
Non si possono proprio vendere, il commerciante deve richiedere al fornitore la documentazione.
Mi fa paura l’ ingegno umano nell’ aggirare norme e controlli..
Speriamo sia efficace…ma lo sapremo solo “a cose fatte”
Quella è una costante millenaria, siamo anche questo. Purtroppo.
😞