Secondo un’inchiesta condotta dal Wall Street Journal, i dazi imposti dagli Stati Uniti hanno causato alle principali case automobilistiche una perdita complessiva di quasi 12 miliardi di dollari, il colpo economico più grave dalla pandemia.
Non ci voleva. Nel pieno di una transizione verso l’elettrico, accelerata dalla prossima invasione di modelli cinesi più economici e tecnologicamente più avanzati, le case automobilistiche hanno dovuto affrontare un nuovo ostacolo: le politiche protezioniste di Donald Trump.
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Lo si legge in un servizio approfondito del Wall Street Journal. L’aumento delle tariffe sulle importazioni, in particolare su auto e componentistica, ha costretto le case automobilistiche a rivedere in fretta piani e bilanci. Toyota ha già segnalato una perdita operativa di 3 miliardi di dollari. Il livello più alto mai registrato da un produttore del settore a causa di misure tariffarie. Il colosso giapponese prevede un impatto ulteriore di 9,5 miliardi entro marzo 2026, con un calo dell’utile previsto del 44%.

A causa dei dazi, l’utile netto del settore automotive potrebbe scendere un quarto entro la fine dell’anno, tornando ai livelli più bassi dalla crisi pandemica
Secondo l’analisi del WSJ, tra Toyota, General Motors e altri principali attori del mercato, le perdite stimate per dazi superano complessivamente gli 11,8 miliardi di dollari. Per le prime dieci case automobilistiche mondiali (escludendo le cinesi), l’utile netto potrebbe scendere di circa un quarto entro la fine dell’anno. Tornando ai livelli più bassi dalla crisi pandemica.
Nonostante l’ondata di dazi, poche case automobilistiche hanno reagito con aumenti significativi dei prezzi. L’approccio resta cauto, frenato dalla paura di un crollo delle vendite o da possibili reazioni negative — inclusi attacchi diretti dell’ex presidente Trump via social. Le aziende non vogliono commettere passi falsi: per esempio, non vogliono essere le prime ad alzare i listini per regalare quote di mercati ai concorrenti. Sono così costrette a trovare soluzioni interne per assorbire i costi, come riduzione degli incentivi e riallocazione della produzione.
General Motors ha stimato un impatto tra i 4 e i 5 miliardi di dollari per l’anno in corso, e conta su “prezzi stabili” per assorbire solo il 10% del colpo. Una seconda linea di difesa arriva direttamente da Washington, con politiche più permissive in materia ambientale e incentivi fiscali come il “Big Beautiful Bill”, che permetterà ai cittadini americani di detrarre fino a 10.000 dollari di interessi su prestiti per l’acquisto di veicoli costruiti negli USA.
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Con i dazi un’industria automobilistica più “regionale”
Le tensioni commerciali, tuttavia, non stanno solo influenzando i bilanci. I produttori stanno accelerando un processo già avviato: costruire auto dove queste vengono vendute. In questo contesto, la “produzione locale” diventa un imperativo strategico: riduce i costi, minimizza i rischi legati ai tassi di cambio e permette di adattarsi meglio alle preferenze dei consumatori, che stanno diventando sempre più specifiche da una regione all’altra.
Un cambiamento guidato non solo da ragioni economiche, ma anche da normative sempre più divergenti tra Nord America, Europa e Cina. General Motors ha già avviato lo spostamento della produzione di alcuni modelli dagli impianti in Canada a quelli dell’Indiana. Honda sta valutando di aumentare i turni produttivi negli stabilimenti americani, mentre Nissan ha deciso di produrre negli Stati Uniti il SUV Rogue, finora realizzato in Giappone.
A marzo, il gruppo Hyundai ha annunciato un investimento di 21 miliardi di dollari negli Stati Uniti. A maggio, Mercedes-Benz ha comunicato lo spostamento della produzione del SUV GLC dall’Europa all’Alabama. La tedesca Audi, rimasta senza impianti negli USA, si trova ora in svantaggio rispetto a BMW e Mercedes, e la sua casa madre Volkswagen è in trattativa per nuovi investimenti americani.
La trasformazione, dunque, è in atto, conclude il Wall Street Journal: gli Stati Uniti e la Cina, i due mercati più importanti al mondo, stanno spingendo le case automobilistiche a costruire “localmente per il locale”. E se la transizione verso l’elettrico in Europa e Cina procede, negli USA sembra rallentare. Anche per le auto a guida autonoma si profilano normative distinte per ciascun continente. Il che rende sempre meno sostenibile l’approccio di un solo modello globale.

