Meno burocrazia sulle colonnine? Un accordo per lo snellimento dell’iter appena firmato da MOTUS-E, E-Distribuzion e Utilitalia e un emendamento al Dl Semplificazioni appena ratificato in via definitiva dal Senato (leggi) alimentano la speranza che le cose possano cambiare. Solo così l’infrastruttura di ricarica italiana potrà svilupparsi, abilitando l’uso di massa dell’auto elettrica anche nel Bel Paese. Ma vediamo nel dettaglio quali sono i passaggi oggi richiesti per passare dal progetto di installazione di una colonnina di ricarica alla sua attivazione: un percorso che richiede fino a 250 gioni lavorativi.
Il “caso Roma” fece il giro d’Italia: decine di colonnine pubbliche di ricarica per auto, già piazzate e pronte a funzionare ma ancora inutilizzabili perché in attesa di allaccio alla rete elettrica, divennero “totem” di protesta e reciproche accuse. E per mesi ospitarono cartelli che attribuivano la responsabilità prima al Comune di Roma, poi al distributore Areti (leggi).
Burocrazia: il 15% delle colonnine è in stand by
Ma Roma, si scoprì, non è la sola città alle prese con la burocrazia della ricarica (leggi). Milano non è messa molto meglio, e nemmeno il resto del Paese: quasi il 15% dei 23.275 punti di ricarica censiti oggi in Italia sono ancora in attesa di connessione alla rete, oppure risultano già individuati e pianificati, ma ancora avviluppati in complessi iter di autorizzazione (fonte MOTUS-E https://www.motus-e.org/analisi-di-mercato/giugno-2021-giro-di-boa-primi-bilanci-per-immatricolazioni-e-infrastrutture).
E servirebbe un ulteriore moltiplicatore per determinare il numero di impianti che i grandi operatori della ricarica, a partire dal principale, Enel X, sarebbero già pronti a piazzare in strada, per di più finanziandoli di tasca propria. Sulla carta, insomma, non dovrebbe essere un’impresa impossibile raggiungere l’obiettivo dei 110.000 punti di ricarica pubblici fissato dal Piano Nazionale Infrastrutture per la Ricarica dei veicoli alimentati ad energia elettrica (PNIRE) per il 2030, quando in Italia circoleranno 6 milioni di auto a batterie.
Ma i Comuni tentennano, prendono tempo, chiedono garanzie, a volte pongono improbabili condizioni. Il resto lo fa la navetta di pratiche fra venditori e distributori di energia. Nella giungla di
una normativa bizantina si calcola che intercorrano 250 giorni lavorativi tra la domanda d’ installazione e l’entrata in funzione di un impianto. Solo una trentina di questi sono destinati all’esecuzione materiale dei lavori.
L’installazione è considerata infatti un bene primario e segue tutto l’iter necessario per costruire un manufatto su strada. Nei Comuni più grandi serve anche l’autorizzazione alla manomissione del suolo per la posa dei cavi e questo aggiunge pratiche alle pratiche.
Burocrazia e colonnine: 15 step per un sì
Per la sola connessione alla rete, sono necessari ben 15 passaggi, alcuni dei quali richiedono tempi non definiti o comunque biblici (90 giorni in media per le autorizzazioni di competenza degli enti locali, coinvolti in diverse sue funzioni tecniche e urbanistiche). Altri enti devono poi esprimersi in caso di vincoli paesaggistici o archeologici. Ciascuno ha proprie procedure e diversi attori.
Alcuni Comuni, per esempio, chiedono ancora la Segnalazione certificata di inizio lavori (SCIA), benché il decreto semplificazioni dica che non è più necessaria. E questo vale solo per le stazioni in bassa tensione, fino a 100 kW. Per le iperfast in media tensione, invece, poiché occorrono due cabine supplementari, una di trasformazione e una di consegna, le autorizzazioni si moltiplicano.
Solo una volta ottenuto il via libera ad installare un impianto in un determinato luogo effettuando tutti i lavori di scavo e di impianto necessari, l’operatore può richiedere l’autorizzazione ad alimentarlo allacciandolo alla rete elettrica. Si rivolge al venditore, e questi al distributore. L’uno e l’altro stilano un preventivo dei costi che il richiedente può accettare o rifiutare perché troppo oneroso. In questo secondo caso tutto il lavoro precedente è da buttare. D’altra parte, non esiste una mappa d’insieme della rete elettrica che indichi i punti idonei all’allaccio, per prossimità e potenza prelevabile.
Dove metterle? Si va per tentativi
Gli operatori avanzano per tentativi. A volte inseguendo i desiderata dei Comuni, altre scegliendo in base alle potenzialità del sito (transiti medi, prossimità a punti d’attrazione). Solo
recentemente Enel Distribuzione ha messo a disposizione una mappa, ma relativa alla sua sola rete. Insomma, avanti di questo passo nei prossimi anni non sarà possibile fare il tanto atteso salto di qualità.
Nel 2019 e nel 2020 lo sviluppo della rete di ricarica è stato sostenuto (il 40-50% all’anno, con un sostanziale raddoppio nel biennio) ma ciò non basta a centrare gli obiettivi più ambiziosi del
PNIRE.
Occorre quindi una drastica sburocratizzazione e una razionalizzazione dei percorsi autorizzativi, uniformando le regole e semplificando l’installazione. I principali step andrebbero uniti in un unico atto autorizzativo, dalla determina di occupazione di suolo pubblico all’autorizzazione allo scavo: i soggetti che effettuano queste due fasi sono diversi e andare in successione fa soltanto perdere tempo.
Sono pochi 8 anni di concessione
E poi ci sono i tempi per l’allaccio alla rete elettrica che a volte sono lunghissimi: a Roma molte colonnine sono rimaste “spente” per oltre un anno. Perché non consentire che le due pratiche (quella tecnico urbanistica e quella per l’allaccio) procedano parallelamente? La legge prevede lo strumento della conferenza di servizi semplificata: sarebbe quella la sede idonea ad autorizzare sia i lavori e l’occupazione del suolo pubblico, sia la connessione alla rete. Si calcola che una riforma di questo
tipo basterebbe a ridurre i tempi medi a 45-60 giorni.
Oltre alla necessità di regolare in modo uniforme e semplificato l’installazione delle infrastrutture di ricarica, c’è poi un problema legato ai tempi della concessione. Oggi la durata è di 8 anni. Ma l’innovazione della tecnologia, l’allungamento della vita utile delle infrastrutture e una sempre maggiore potenza richiede tempi più lunghi per l’ammortamento degli investimenti. Quindi la durata della concessione dovrebbe essere portata ad almeno trent’anni.
Contrario alla selva di colonnine, un business che farà sfaceli e lascerà cadaveri ovunque. Bizantinismi. Non serve occupare il suolo pubblico con queste tristi scatole malfunzionanti ed antiquate: servono tanti centri di ricarica veloce a 600 kw e a prezzi popolari.
Le colonnine che ci sono bastano e avanzano: adesso con serietà si lavori a convertire i benzinai in centri di ricarica ultrafast da 600kw.
Basterebbe convertire meno della metà degli attuali distributori: la maggioranza ricarica a casa, quindi una ricarica ultrafast in 8 minuti è sufficiente per quei pochi che vogliono fare il pieno fuori casa.
Perché disseminare il territorio di modem 14.4k quando i costruttori sfornano auto col 5g che viaggiano a gbit/s?
Qs settimana ho alloggiato in un albergo che aveva una colonnina becharge. Ovviamente non attiva. Parlando col proprietario dell’albergo minha spiegato che lui è partito con la richiesta 3 anni fa. Poi è da un pezzo che becharge l’ha posizionata. Ed ora sono mesi che manca solo l’allaccio da parte dell’enel…e non ha indicazioni di sorta….ma dove vogliamo andare cosi? Siamo un paese di inconcludenti. Il sud ma sud profondo dell’europa
Comunque articolo interessante, speriamo che il Cingolani ci stia lavorando. Ma a quando un live col ministro? E magari Armaroli
Massimo, non ho afferrato il senso dell’ultima affermazione. Normalmente le aziende ammortano un investimento in 7-10 anni, a seconda del costo. Perché servirebbero 30 anni per la durata della concessione?
Se ENEL istallasse oggi una colonnina e la ammortasse al 2028 (per esempio), non andrebbe bene rinegoziare la concessione solo alcuni anni dopo? Sempre per esempio 2032.
Una volta presenti cavidotti e centraline, servirebbe solo capire se serve un aggiornamento, magari di potenza.
Il business delle colonnine non è paragonabile ad altri, in settori più consolidati. Oggi l’indice di occupazione delle colonnine è ampiamente inferiore alla soglia di sostenibilità economica. Resterà tale per molti anni ancora, soprattutto per gli impianti fast e ultra fast che costano fra 50 e 500 mila euro ciascuno. Tutti i CPO stimano almeno 15 anni per l’ammortamento.
Massimo solo per interloquire, non per contraddire. E’ plausibile che un’azienda possa impiegare 15 anni per l’ammortamento ma ci sono stime credibili che Tesla, che oggi ricava meno di un miliardo di dollari annui dalla sua rete SuperCharger, aprendo la rete a tutti possa arrivare ad oltre 25 miliardi di dollari annui secondo Goldman Sachs. E certo non si ferma, anzi, la rete supercharger continua a crescere in modo esponenziale [ https://backlinko.com/tesla-stats#tesla-supercharger-locations ].
Secondo me dipende le cose come le fai. Se la tua rete la fai veloce e intelligente, se la costruisci con moduli preassemblati, se punti al massimo della tecnologia, se nonostante ciò, nonostante sei il top, il numero 1, punti a prezzi competitivi, tu vinci.
Non c’è partita.
Non so da cosa derivino le stime, ma certo, in Italia, la rete dei supercharger è in forte perdita e resterà in perdita per molti anni. Metà delle Tesla ricaricano gratis, le altre pagano 0,34 euro al kWh, che equivale alla quota di costi fissi più il costo della materia prima. Margine zero.
Da maggio pagano 0,41 €/kWh. Ma non è questo il punto.
Partiamo da una premessa: se ci si vuole impegnare nel business dei supercharger, occorre ragionare a livello globale, non italiano, non europeo ma mondiale. Altrimenti non si otterrà mai l’economia di scala desiderata. Ovviamente, ragionando a livello globale, l’Italia non fa testo, è un paese a fallimento di mercato: ma se ragioni a livello globale compensi anche questi casi.
Intanto partiamo da un dato: questo business non può essere a perdere se Tesla già oggi fa revenue per quasi 1 miliardo di dollari annui e può tirarci fuori revenue pari ad una finanziaria di un paese come l’Italia [ https://www.teslarati.com/tesla-superchargers-estimated-to-make-25b-in-annual-revenue-when-opened-to-other-evs/ ]. Possiamo discutere su numeri e stime, ma non può essere un business a perdere.
Altra osservazione: Ionity ha totalmente sbagliato approccio. I suoi prezzi sono folli, 0.79 €/kwh è una fucilata, chi ricarica da Ionity si mangia mani e fegato, sta mezzora a ricaricare e il costo al km è esagerato, neanche con una supercar a benzina spende tanto. Al contrario, i supercharger di Tesla, anche col prezzo di 0,41, sono convenienti: una Tesla che viaggia in autostrada a 130 km/h spende circa 9 € / 100 km, un prezzo più alto rispetto ai migliori diesel ma ci può stare. Il prezzo di Ionity è fuori mercato, un utente non è felice di ricaricare da Ionity, lo fa solo se costretto. Peggio mi sento quando penso alla loro politica degli abbonamenti: accontenta chi viaggia spesso ma non il viaggiatore occasionale che non trova logico o eticamente corretto dover sottoscrivere un abbonamento per fare una ricarica. Ionity è partita con un prezzo alto che ora dovrà abbassare (spiego tra un attimo), mentre Tesla ha fatto il contrario: è partita ?regalando per anni l’energia e ora lentamente sta aumentando il prezzo. Uno dei 2 non ha capito come si gioca sul mercato.
Altra osservazione: si vocifera che Tesla potrebbe chiedere 0,50 €/kWh per chi non possiede Tesla. Se così fosse, Ionity scompare. Tesla potrebbe accontentarsi anche di poco pur di far fallire Ionity: non so se sarà questa la tariffa di Tesla, ma Ionity si troverebbe in una situazione di gravissimo imbarazzo. Ma pensa invece se Tesla applicasse la stessa tariffa che applica ai suoi: booom, game over per tutti gli altri, non incassi oggi ma fai fallire la concorrenza (o la costringi ad indebitarsi ulteriormente).
Ionity non può giocarsi la carta del premium questa volta: perché l’energia è “incolore” e quindi l’utente va dove costa meno. I markettari del premium sono fregati, non possono inventarsi niente, sono spalle al muro.
Inoltre, cari signori delle colonnine, non potete sparare prezzi stellari, altrimenti le persone finiscono per ricaricare solo a casa, in ufficio e presso i supermercati e le vostre reti restano senza clienti, tristi cattedrali nel deserto.
Ci sarà tanto da divertirsi
Primo: la discussione è partita dalla durata delle concessioni in Italia, quindi che c’entra lo scenario globale?
Secondo: i 79 centesimi della tariffa Ionity sono esattamente il prezzo di mercato, cioè costi più margine. Le case auto convenzionate perchè socie di Ionity hanno tariffe molto più basse, attorno a 30-35 centesimi. In linea con i Supercharger.
Conclusioni: nelle condizioni del mercato italiano le tariffe stracciate che tu invochi non sono sostenibili. Chi le pratica lo fa in perdita, considerandole un incentivo all’acquisto delle proprie auto.
PS: tu continui a ragionare con la mentalità dell’automobilista termico che va dal benzinaio. Non è così. La ricarica ultra fast a 350 kW e passa non può essere la modalità di ricarica abituale (tra l’altro riduce la vita delle batterie) ma solo occasionale e limitata alle lunghe percorrenze. Il 90% delle ricariche sarà sempre a casa, al lavoro, al supermercato, nei parcheggi urbani, quando l’auto sarebbe comunque ferma e tu a fare altro. Dove non ha senso sparare potenze assurde, tanto le soste sono comunque di ore. Questo fa ogni proprietario di auto elettrica. E così si fa nei paesi più avanzati. In Norvegia le auto elettriche sono una su due, ma le ricariche ultra fast solo una su quindici-venti.
Massimo ma chi costruisce il paese oggi e fa l’investimento oggi deve avere una visione di prospettiva. Davvero vogliamo pensare che le batterie di domani si stresseranno e si rovineranno a fare ricariche veloci? Già quelle di Aion al grafene, e si parla di settembre 2021 ovvero il mese prossimo, no, sono progettate per non rovinarsi con le ricariche veloci. Tu credi che tra 5 anni ci saranno ancora produttori di batterie che faranno batterie che si rovinano con le ricariche veloci?
Il rapporto ultra fast / slow è uno a quindi perché così doveva essere considerato da dove siamo partiti, quando neanche c’era la tecnologia per le ricariche ultra fast. Ma rimarrà 1 a 15 anche in futuro, quando inizieranno ad esserci auto che possono ricaricare velocemente senza problemi? Questi vorranno ricaricare fast o slow?
Enzo, è inutile cercare di convincerti di alcunchè, quindi ci rinuncio. Ma chiedi a chi abitualmente viaggia in auto elettrica quante volte ricarica da 50 Kw in su e quante a 3, 7, 11 o 22 kW. Ti risponderà una volta su diceci. E sai perchè? Queste colonnine le trovano a casa, al lavoro, al supermercato, nel parcheggio pubblico e non perdono nemmeno un minuto a ricaricare. Se dovessero andare “dal benzinaio” come insisti a credere tu, anche ricaricando in 5 minuti, perderebbero quelli, più il tempo del tragitto per arrivarci.
Scusa ma, secondo te Enel fa l’investimento (denaro,tempo,tecnologia) e dopo averlo ammortizzato in un bel po’ di anni si accontenta di guadagnarci solo x 4 anni?